16 novembre 2005

La Warner offre su Internet 14.000 ore di tv

tv onlineE' come imbarcare un treno a vapore sullo Shuttle. Quattordicimila ore di televisione. Non semplice tv, ma Wonder Woman, Kung Fu e tanta altra bella roba un po' "vintage", non ancora "Friends", quello si vende ancora bene alle stazioni televisive che vogliono ritrasmetterlo. Sei canali tematici e una modalità di trasmissione (lo "streaming"), che dovrebbe impedire sia di registrarsi i programmi che di saltare la pubblicità.

Insomma la televisione "chiusa", autoritaria, forte e saporita, com'era Lynda Carter e il suo possente torace negli anni '70. Il tutto, su internet, si chiamerà In2TV. Lo farà America on Line. Ma quella che va da gennaio prossimo in linea sul portale da 110 milioni di utenti unici al mese non è altro che la "libreria", cioè l'archivio della Warner Bros. Che con AOL condivide il Gruppo editoriale di appartenenza, la Time Warner appunto. Si tratta di 800 titoli, ma ogni titolo può nascondere una serie.

In realtà il treno a vapore non è tanto una struttura chiusa, perché si tenterà anche di immettere un po' di televisione interattiva. Mentre il signore di 50 anni si guarderà quel telefilm anni '70 (o lo farà il ragazzo di 15 anni appassionato del "vintage"? Questa è una delle domande che si stanno facendo gli esperti di marketing dopo l'annuncio della Warner), mentre quella trasmissione andrà sullo schermo al plasma del portatile, ebbene ci sarà uno "split screen", cioè si aprirà una sorta di finestra all'interno della quale si potrà partecipare a qualche gioco a premio, del tipo "Chi intepretò il ruolo di Wonder Girl per alcune puntate di Wonder Woman? " (per i curiosi: Debra Winger). Cosa ci perde la Warner Bros a fare questa operazione è chiaro, cosa ci guadagnerà è una delle più adrenaliniche scommesse del capitalismo americano. La società perde la possibilità di fare syndication, cioè vendita a terzi di quella roba, e non potrà più distribuirla in dvd o home video.

Risposta: si tratta di annate vecchie, che hanno dato scarsi risultati nella vendita in negozio e che nessuna televisione al mondo vuol più comprare. Nell'operazione ci può guadagnare, il Gruppo Warner, il rilancio di America on Line che con la Fiction allinea adesso nella sua offerta tv anche lo sport, le notizie e un reality show che sta preparando in collaborazione con la Warner Music, The BiZ, per quelli che vogliono far carriera (non da artisti ma da manager e producer) nel mondo della musica. Insomma la televisione classica, pura e dura, in diretta e su internet. Nemmeno il tentativo di venderla - come altri stanno tentando negli USA - in "unit", in pezzi unici da scaricare sull' iPod per poi vederseli dove ti pare.

No, no: certo puoi approfittare del computer portatile, ma è sul mercato domestico e sulla visione simultanea che si punta. La metà della case statunitensi ha già una connessione in ADSL o larga banda vera (via cavo) e chi ha i contenuti vuol provare a stanare una vena di mercato che potrebbe dare oro. C'è già chi - come la casa di ricerche JupiterMedia - pronostica che andrà male, perché il pubblico giovanile non risponderà e la pubblicità potrebbe non trovare interessante un pubblico di baby boomers annoiati dalla tv contemporanea. Però è difficile che un gruppo come Warner si sia mosso senza un modello di business e una previsione di mercato, non siamo di fronte all'ultima start up di Silicon Valley.

E poi i baby boomers hanno soldi da spendere. Resta un primato per Warner. Quello di aver creato un modello funzionante, ricco di contenuti, di broadcast internet. Un primato virtuale, e non solo per il mezzo. Tutto il mondo hi tech ci sta provando. In Italia anche Alice, il portale di Telecom. L'ipotesi è sempre la stessa: che un pubblico saturo di televisione trovi interessante altra televisione, ma guardandola sul computer. E che trovi, questo pubblico, la voglia per uno sms malandrino o una suoneria allegata al film, pagando così per una televisione gratuita (ma questo non c'è nel modello Warner). E' una idea di internet, che non piace ai pionieri, ma che le aziende provano a mettere in pratica. Chissà se Wonder Woman diventerà Wonder Net... [fonte repubblica.it]

13 novembre 2005

Advertising online: ecco i primi 20 top spender americani

Tutti sanno che gli investimenti per la pubblicità su web sono in continua crescita, ma sapete da quali aziende provengono? TNS Media Intelligence ha realizzato una classifica, pubblicata da Emarketer, delle prime 20 aziende americane che nel mese di Settembre 2005 hanno investito di più nell'advertising online:


advertising online

Vonage è risultata essere la compagnia che ha investito di più nella pubblicità su internet nel mese di Settembre, con oltre 20 milioni di dollari spesi in advertising, seguita da Classmates.com (15 milioni di dollari) e Ameritrade Brokerage (8 milioni di dollari).

07 novembre 2005

Il motore di ricerca Virgilio chiude i battenti

motore di ricerca virgilioHanno ucciso "il bello di Internet". Il marchio Virgilio, nome storico di internet, "marca" del primo motore di ricerca italiano e di uno dei maggiori portali generalisti, pubblicizzato dal famoso bruttone con la nazionale senza filtro in bocca (il"bello" di internet), cade sotto un'operazione di marketing voluta dai vertici di Telecom. Che dalle prossime settimane (la data non è stata resa nota) sarà sostituito dal nuovo "Alice", che al convegno di Internet Advertising Bureau Italia di Milano è stato anche mostrato. Un po' azzurrino, un po' più piatto e tradizionale rispetto al disegno precedente, uno slogan un po' a rimorchio del passato: "la bella di Internet".

E' significativo che la scelta cada su quello che è stato finora il portale del video on demand dell'ex monopolista. Perché sarà il video a richiesta ("saremo concorrenti più di Blockbuster che dei Broadcaster" dice il direttore contenuti broadband Ramon Grijuela) da distribuire sul computer, sulla tv, sul telefono cellulare, a dominare la nuova offerta internet. La visione commerciale c'è tutta, il disegno egemonico pure ("vogliamo continuare a fare gli editori perché lo sappiamo far bene"), e la voce di Grijuela annuncia ad un convegno sulla pubblicità chi sarà a guadagnare nei prossimi anni su internet.

Curioso che il manager Telecom abbia speso molti minuti per spiegare che il mercato degli utenti italiani dell'adsl cresce forte, e si avvia a superare un difetto, quello degli abbonamenti nei quali si paga a consumo, di cui la sua azienda (insieme alle altre del settore) è la prima responsabile. Ma che il mercato cresca e forte è vero, molto vero. Lo ha messo a fuoco questa conferenza che è ormai il migliore appuntamento annuo per sentire il polso della penetrazione internet in Italia: ne emerge che abbiamo (secondo Eurisko) 20 milioni di abbonati a internet, che l'adsl si impone come la tipologia di connessione a più forte crescita, che la pubblicità sulla rete cresce (Nielsen) a un tasso di oltre il 13% quest'anno sull'anno scorso ma che - purtroppo - nessuno ci toglie dal cuore del gruppone degli inseguitori.

Perché la pubblicità internet in questo paese è ancora l'1,4% di tutta la torta pubblicitaria, mentre è il 5,8% in Gran Bretagna, più ancora che negli stessi Stati Uniti (4,8%). Le cause non sono dette, ma stanno là, sospese nell'aria. Oltre ai problemi dell'Adsl (se pago per ogni cosa che vedo, non sto collegato poi molto), il nodo sta nel ristrettissimo numero di aziende che investe in pubblicità internet, meno di 1500 aziende, con un "media mix" (il pacchetto che combina i vari mezzi) che vede una fetta destinata alla rete ancora troppo bassa.

E poi c'è il nodo italiano della televisione. Che prende per sé il pezzo più grande del mercato (come succede ovunque ma in misura maggiore che in altri paesi) ma che soprattutto - come dice un operatore in privato - "decide il prezzo della pubblicità, perché per poter vendere sui grandi volumi, lo fa a livelli molto bassi, così fa il pieno. Una volta stabilito che la televisione costa così poco, come fa internet ad essere venduta meglio e guadagnare?".

Cresce internet in Italia, ma non c'è la valanga che qualcuno in America prevede, a favore dei new media e a detrimento di giornali e televisioni. Per quanto riguarda gli utenti, la rete in Italia ha conquistato la testa del paese: il 35% della popolazione (Eurisko), quella con i migliori titoli di studio, quelli che guadagnano di più, quelli che stanno al Nord. Ma viene da Nielsen la previsione che il grande boom sarà una crescita prospera, forse lunga, ma certo non esplosiva, diciamo un 4,4% (a livello mondiale) di media nei prossimi due anni. E allora bisogna puntare forte su ogni canale possibile: ecco che IAB si dedica a "fare cultura", a organizzare gruppi con le aziende per studiare come funzionano le newsletter e il direct marketing, se sarà possibile pensare ai "business blog", per aprire un dialogo con la gente.

Eh sì, perché il tormentone dello "user empowerment", del "tutto il potere al consumatore" è arrivato anche da noi. Fa impressione sentire la compassata Eurisko, la cattedrale della sociologia dei media di questo paese, parlare di insegnare alle aziende la vie di internet, la diffusione molecolare dell'informazione attraverso un rapporto diretto con la gente che si fa media, che assume su di sé la titolarità delle proprie decisioni e del proprio informarsi. Qualche fanatico del web 2.0 deve aver "hackerato" l'impostazione culturale di Eurisko, o forse il tentativo (lodevole) di Edmondo Lucchi è stato solo quello di far capire alle aziende, e non ai media che già lo sanno, che hanno nelle mani uno strumento potente che può metterle a contatto col pubblico, rivelando loro vie sconosciute per creare valore. Di certo qualche tormentone ha prodotto più di un equivoco, ma l'idea che a comunicare, ad essere trasparenti, ad accettare le critiche si può guadagnare, è un buon messaggio da inviare alle aziende italiane.

Utilizzare le vie di internet per raggiungere i nuovi "punti di contatto" con un pubblico che sembra impzzito, che nessuno sa dove stia andando - gli adolescenti, ad esempio, cosa pensano e dove vivono? - è quello che tentano dovunque da Singapore a Parigi. Che queste vie del nuovo pubblico possano avere molti nomi - blog, motori di ricerca, newsletter, comunità di utenti, uso dell'aggregazione informativa attraverso gli RSS - , ma le aziende italiane si limitano per ora a partecipare molto intensamente (1500 persone) ai convegni sulla nuova ondata di internet, però restano ben attaccate alle certezze antiche (la televisione), quando si tratta di maneggiare la tecnologia della conoscenza. E ora di televisione risentono parlare anche su internet. Dev'essere il destino. [fonte Repubblica]

06 novembre 2005

Motori di ricerca in Italia. Classifiche e utilizzi

motori ricercaLa rotta per la navigazione Internet è quella indicata dai motori di ricerca: i search engines sono la porta privilegiata per gli italiani che accedono al Web.

La notizia arriva dal rapporto semestrale dell'Osservatorio User, che ha evidenziato come, dei ben 17 milioni di internauti che ogni giorno accedono alla rete, tutti utilizzano i servizi offerti dai motori di ricerca.

Analizzando un campione rappresentativo di 1.000 casi, lo studio ha inoltre evidenziato un netto incremento delle navigatrici donne (42,8%, 7 milioni) ed una speciale classifica dei motori di ricerca più conosciuti.

Neanche a dirlo, il dominatore è Google (711 casi), seguito da Virgilio (60) e Yahoo!. Un podio che rispetta anche i piazzamenti ottenuti nella classifica di utilizzo, mentre, in totale, sono 7 i motori conosciuti dagli intervistati. Il rapporto User ha poi chiesto al campione dei 'search user', che cosa cerca. Persone, cose e luoghi vanno per la maggiore (64,1%), anche se è in forte espansione il settore dell'informazione sugli acquisti, con biglietti e viaggi (49,1%) a fare la voce grossa.

Da quanto emerso, inoltre, i navigatori Internet si dicono 'molto soddisfatti' dei servizi offerti dai motori di ricerca nel 51,1% dei casi e 'abbastanza soddisfatti' nel 48,1%, mentre quasi tutti (99,2%) concordano nel dirsi 'appagati' dal proprio motore di ricerca. Utilizzatori e conoscitori: i link sponsorizzati non sono più una sorpresa. Ben il 90% degli intervistati è infatti a conoscenza di zone dedicate all'advertising ed il 55% propende al clicccarci, soprattutto le donne. Niente pagine inutili o strade tortuose però, anche i link sponsorizzati devono arrivare subito al sodo, ovvero al prodotto.

Nell'indagine User non manca poi l'identikit del 'search user', riassumibile in 4 macro-categorie: General User, News User, User for Fun e Heavy User.

Il 'General User' (spesso over 40, navigatore esperto e con una nutrita percentuale di donne) rappresenta il 29% del totale e cerca qualsiasi tipo di informazione. Il 'News User' (28%) è invece giovane, navigatore da non più di 5 anni e consumatore di informazioni. 'User for fun' (24%) è invece chi cerca tutto ciò che serve a distrarre, una caratteristica spesso riscontrabile nei più giovani. Un 'Heavy User' è invece un individuo maturo, esperto di Internet ed orientato all'e-commerce ed ai servizi più evoluti. Spesso si tratta di uomini che fanno un assiduo utilizzo dei motori di ricerca.

Il prossimo appuntamento con l'Osservatorio User è tra sei mesi. [fonte Jugo]

Dal lessicale al semantico: il futuro (incerto) dei motori di ricerca

semantic webChi usa Internet usa i motori di ricerca; i dati internazionali parlano di circa un 95%, ma ritengo che siano stime per difetto è infatti inimmaginabile navigare il Web senza usare (anche ‘accidentalmente’) un motore di ricerca. Lo stesso non si può dire di tutti gli altri ‘tipi’ di siti; i portali, i market place, gli e-mall, le pagine bianche, gialle e via dicendo.

I motori di ricerca sono il ‘cuore’ del web, perché chi naviga lo fa per cercare (prima di comprare o prima di non comprare, prima di sapere o di non sapere) e il modo più semplice per trovare ciò che ci importa è (attualmente) quello di usare un motore di ricerca. Allo stesso tempo, i motori di ricerca sono anche il ‘cuore economico’ di Internet perché i motori di ricerca sono stati riconosciuti, ormai da molti anni, come lo strumento più efficace ed economico (anche se non l’unico) per trovare nuovi clienti, per fidelizzare i vecchi e per recuperare quelli che si sono persi per strada.

Purtroppo, il successo e l’affermazione dei motori di ricerca nel Web non è stata seguita da un’altrettanto rapida evoluzione dei loro meccanismi e della loro efficacia. Detto in poche parole, i motori di ricerca non hanno seguito lo sviluppo del Web o, per meglio dire, non hanno mantenuto le promesse (implicite) del passato, un ritardo veramente straordinario se pensiamo che la web industry è molto più dinamica (quindi veloce) della industria classica del software e che i motori di ricerca ne rappresentano la punta di diamante; questa dinamicità è inoltre confermata anche dai ‘movimenti’ economici che ci sono stati negli ultimi sette, otto anni nel mondo dei motori di ricerca.. Siti-scoietà precedentemente leader (pensiamo a Lycos, il primo motore di ricerca o Altavista, che sembrava essere destinato a una leadership eterna) esistono soltanto come nome, senza essere più annoverabili fra i big player del mercato internazionale o nazionale. Contestualmente, ci sono stare numerosissime fusioni e acquisizioni, pensiamo a GoTo, poi Overture, acquistato da Yahoo (acquistando così anche il vecchio Altavista che già da anni aveva perso la sua autonomia), pensiamo a Espotting, acquistata da Findwhat e diventata poi Miva, pensiamo a tutte le feature che sono state introdotte nei motori di ricerca sia da un “customer point of view”, sia da uno “user point of view”: il pay per click, il pay per lead (il tentativo ancora fallimentare di Snap.com), la ricerca per immagini, per filmati, per brani musicali, la ricerca di immagini satellitari e quella dei video; a un’occhiata superficiale potrebbe apparire che di ‘cose’ ne sono state fatte moltissime. In parte è vero, ma si tratta di ‘passi avanti’ quantitativi e non qualitativi. In sostanza, l’ultima vera ‘rivoluzione’ nella web search c’è stata sette anni fa con la nascita di Google.com.

Il Web di oggi non è più quello di due anni fa e tanto meno quello di sette anni fa, ma il più famoso motore di ricerca oggi esistente – Google – è rimasto fermo a sette anni fa e chi lo rincorre nella corsa al search engine marketing (e market) non sembra essere abitativamente differente, ma solo quantitativamente meno frequentato.

In questo articolo parlerò principalmente di Google, ma solo perché è il ‘primum inter pares’ di tutti i search engine utilizzati attualmente. Ciò che vale per Google vale anche per Msn search, Yahoo search, Aol search, Ask Jevees (ora solo ‘Ask’) etc.

Il ‘mistero’ delle mazze da baseball

Ma che cosa c’è che non va nei motori di ricerca attuali?
Cominciamo con un esempio:

Se cerco ‘comprare mazze da baseball’ su Google, la prima pagina visualizzata è la seguente:

http://www.webmarketingstrategico.com/pay_per_call_3.html

Si tratta di un articolo (del sottoscritto) che contiene le parole ‘comprare’, ‘mazze’ ‘da’ e ‘baseball’, ma che non è di nessuna utilità a chi desidera comprare una mazza da baseball.

Qualsiasi persona senza deficit intellettivi capisce che l’intenzione di chi cerca in un motore con la keyword ‘comprare mazze da baseball’ è intenzionato a comprare delle mazze da baseball. Perché Google non lo capisce? Semplice, perché Google è – come tutti gli altri – un motore di ricerca ‘lessicale’ e non un motore di ricerca ‘semantico’. Nel linguaggio fra uomini le parole servono per significare concetti e infatti abbiamo una differenza sostanziale fra significante e significato. Il significante è la parola ‘nuda e cruda’, il significato è quello che essa ‘indica’. Per esempio, un significante può voler dire due significati diversi a seconda della lingua che stiamo parlando. “burro” in italiano è un alimento, in portoghese è un animale (l’asino). Allo stesso tempo, un significato può essere ‘indicato’ da diversi significanti, della stessa lingua (sinonimia) o di lingue diverse; quindi “mazze da baseball” e “baseball bats” significano esattamente la medesima cosa.

Ora, se chiamassimo un numero di telefono e richiedessimo il numero di telefono di un negozio che vende mazze da baseball, saremmo molto frustrati (per usare un eufemismo) se la persona dall’altro capo del telefono ci indicasse il numero di un ufficio che si occupa di marketing e che tempo fa ha pubblicizzato delle mazze da baseball in carbonio.

La stessa frustrazione dobbiamo provarla per i motori di ricerca che ancora non sono in grado di ‘capire’ quello che stiamo cercando.

Un altro esempio (sempre egocentrico); cercate su Google la keyphrase (ovverosia successione di keyword): “campioni di golf”; secondo voi che cosa cerca un navigatore che digita “campioni di golf” nel form di un search engine? Io dico che può cercare qualcosa che ha a che fare con il golf e più specificamente qualcosa che ha a che fare con i campioni di golf, senza specificarne la nazionalità. Non si tratta quindi più di una ricerca orientata all’acquisto (come in quella precedente delle ‘mazze da baseball’, sarebbe molto ‘costoso’ comprare un campione da golf), ma più generica, orientata comunque verso uno sport specifico (il golf) e i suoi campioni. Ci aspetteremmo quindi di trovare pagine di siti che parlano di Tiger Woods and company e invece, no; il primo sito visualizzato è ancora una volta un sito di marketing che – per fare un esempio di come non dovrebbero funzionare i motori di ricerca – utilizza proprio l’esempio dei “campioni di golf”.

La pagina infatti è la seguente:

http://www.webmarketingstrategico.com/gsst_meta_2.html

Possiamo essere soddisfatti di questi risultati?

Certamente no.

Gli altri motori di ricerca sono migliori?

No.

Il fatto che le SERP (Search Engine Result Pages) per le keyphrase testè citate (mazze da golf e campioni di baseball) contengano decine di migliaia di pagine tra cui ‘cercare’ i siti ‘giusti’ ci aiuta?

No.

La ‘lessicalità’ dei motori di ricerca attuali va infatti ‘a braccetto’ con la quantità dei risultati di ricerca. Torniamo all’esempio della telefonata; poniamo che stiate cercando un ristorante giapponese; chiamate e dall’altra parte vi sentite dire: “Abbiamo a disposizione 30.000 numeri di telefono che trattano in qualche maniera di ristoranti giapponesi; non sappiamo se siano dei ristoranti giapponesi, ma in qualche maniera vi hanno a che fare; vuole che la metto in contatto con qualcuno di questi?”; saremmo estremamente frustrati da questa risposta e certamente non riterremmo il servizio valido. Invece è proprio ciò che accade nei motori di ricerca. Solo che nei motori di ricerca non abbiamo nessuna ‘signorina o ‘signorino’ con cui lamentarci e a cui chiedere consiglio; quindi che cosa facciamo? Diamo un’occhiata ai titoli e alle descrizioni visualizzati e clicchiamo, ‘sperando in bene’; ovviamente la prima occhiata è dedicata ai primi siti visualizzati, perché riteniamo (sbagliando) che i primi risultati visualizzati siano quelli più attinenti con la nostra ricerca. La teoria è buona; purtroppo non funziona.

Oltre le parole, verso i concetti

Dunque “che fare”? Distruggere è più facile che costruire, ma non per questo dobbiamo accettare la scarsa qualità dei risultati di ricerca attuali; un’alternativa c’è ed è quella di passare da un motore di ricerca lessicale a uno semantico; con questo non dico di ‘cassare’ la lessicalità dei motori, ma di dare la possiblità agli utenti di cercare anche ‘semanticamente’; spesso sentiamo parlare di “AI”, acronimo per “Artificial Intelligence” o di IR (Information Retrieval) o di :LSI e LSA (Latent Semantic Indexing, Latent Semantic Analysis); l’intelligenza artificiale non è altro che la possibilità per un essere umano di ‘dialogare’ con una macchina in una maniera ‘umana’ e la base per questo dialogo è la possibilità di fare corrispondere significati a significati, in una forma ‘semplice’ ) singolo significato) e in una forma ‘complessa’ (tipicamente, una frase, con soggetto, predicato etc.). Attualmente, molti motori di ricerca ‘millantano’ la possibilità di rispondere a domande ‘umane’; per esempio, spesso si vedono degli adsense di Google (pubblicità testuali) in cui si leggono domande come “qual è la montagna più alta del mondo”, oppure “perché il cielo è blu” e cose del genere, dando l’impressione che il motore di ricerca ‘capisca’ che si tratti di una domanda e quale ne sia il contenuto; di fatto non è così, se si clicchiamo queste pubblicità, Google ‘lancia’ delle ricerche che sono tutt’altro che semantiche; in sostanza si tratta di successioni di parole che ‘’lessicalmente’ fanno visualizzare dei siti che le contengono e che non casualmente contengono la risposta alle domande visualizzate. Si tratta di un vero e proprio ‘trucco’; anche il m,miglior motore di ricerca attuale (Google) non è in grado di capire se una domanda è una domanda (non basta di certo il punto interrogativo), se una domanda è retorica, se è mal posta, se utilizza vocaboli stranieri e se è in sé contraddittoria:se cercate su Google con la keyphrase: “Perché il cielo è blu?” avrete una lista di siti che (affannati per riuscire ad attrarre click dai famosi banner di cui sopra)che cercano di spiegare il fenomeno atmosferico; se però cercate “Perché il cielo è rosso” (visto che al tramonto spesos lo è) troverete una lista di siti ben diversa e che mostra come non ci sia affatto da parte del motore di ricerca la comprensione del fatto che l’utente sta cercando una risposta scientifica a una domanda banale. Provate a cercare la frase “quando è morto Kennedy?”, vedrete che non appaiono altro che pagine web che contengono proprio quella frase e non che contengono le informazioni alla domanda. E’ come se, cercando un ristorante cinese al telefono vi comunicassero il nome di un ristorante che si chiama “dov’è un ristorante cinese in zona Magenta?”.Inutile dire che il sistema attuale utilizzato non solo da Google (la matrice inversa per determinare il valore delle pagine web, che nulla a che fare ovviamente con la semplice attinenza) può essere facilmente ‘fooled’ con quello che viene definito ‘bombing’; notissimi sono stati i casi di ‘failure’, che siu Google fa visualizzare in prima posizione il sito della biografia ufficiale di Gorge W. Bush; ogni qualche mese si fa cenno a questi esempi per mostrare come il ‘sistema’ non sia ‘perfetto’, ma il sistema è tutt’altro che perfetto anche in tutte le ricerche dove non c’è stata una precisa volontà di modificare a proprio vantaggio i risultati di ricerca di un search engine; nel caso di “mazze da baseball” e “campioni di golf” non avevo nessuna intenzione di apparire ai primi posti con quelle keyword eppure tutto ciò è ‘naturalmente’ avvenuto.

Il Latent Semantic Indexing. Un passo importante verso la semanticità della ricerca

Ho scritto già qualche articolo in merito al LSI (alias Latent Semantic Analysis), ma dirò subito che non intendo affatto entrare qui nel merito di dettagli tecnici, in quanto non sarebbero affatto utili e comprendere l’importanza di questa ‘via’ e complicherebbero inutilmente le cose; per riassumere il ‘cuore’ del LSI, potremmo dire che si tratta del tentativo di organizzare dei documenti (raccogliendoli appunto) con un’ottica semantica e con il minimo apporto ‘umano’, in sostanza facendo in modo che il ‘sistema’, la ‘macchina’, il ‘software’, una vota avute le ‘istruzioniì’ da un essere umano (o più probabilmente tanti esseri umani) possa autonomamente ‘capire’ di che cosa trattano i documenti raccolti (le pagine web non sono forse come dei documenti da raccogliere in una biblioteca), di ‘capirlo’ con una ‘mentalità’ umana e di fare sì che quando un uomo cerchi determinati ‘concetti/significati’ possa trovare dei documenti che vi siano attinenti, a prescindere dagli specifici termini utilizzati nella domanda. Il LSI funziona in maniera abbastanza semplice: in sostanza, durante la raccolta dei documenti vengono analizzati i termini che vi sono contenuti, non considerando dei termini (significanti) che sono ‘trasversali’ e che quindi non sono utili per determinare il ‘contenuto’ del documento (come ad esempio le preposizioni, gli avverbi o parole utilizzate comunemente in qualsiasi o nella gran parte dei documenti), non considerando spesso i suffissi dei termini, con un’operazione denominata “stemming” (in sostanza il termine “rivoluzionario” “rivoluzionarietà” e “rivoluzione” vengono ‘parificati’ nel termine ‘stemmed’ ‘”rivoluz”) e osservando e registrando quali sono le ‘vicinanze’ fra determinati termini; per tornare all’esempio del golf; poniamo che il LSI sia applicato a un miliardo di documenti raccolti (i motori di ricerca attualmente ne indicizzano più di dieci volte tanti) e che in 1.000 di questi documenti appaia il termine Tiger Woods (il famoso campione di golf statunitense). Il ‘sistema’ riconosce che nel 90% dei casi in cui appare il termine “Tiger Woods” appaia anche il termine ‘golf’ e che nel 70% dei casi appaia il termine “campioni di golf”; questo ‘significa’ che Tiger Woods è ‘strettamente legato’ a “golf” e a “campioni di golf”; il sistema non può di certo sapere che Tiger Woods ‘è’ un campoione di golf, ma può certamente capire che non ha che fare con il marketing, con il web marketing o con il latent semantic indexing e questo perché nella grande ‘matrice’ che emerge dall’analisi semantica di tutti i documenti raccolti con il LSI i gruppi di parole “campioni di golf”, “golf” e “Tiger Woods” sono ‘lontani’ (la matrice può essere visualizzata tridimensionalmente come un ‘cubo’ che contiene dei ‘rami’ e dei fasci di rami più o meno vicini fra loro. Il fatto che siamo lontani non significa certo che non possano essere uniti nel medesimo documento (e l’esempio che abbiamo fatto sopra dimostra proprio che questo può accadere), ma significa anche a seguito di una ricerca per un semplice termine “Tiger Woods” i primi documenti che debbono essere visualizzati non sono di certo quelli che hanno a che fare con il marketing ma quelli che hanno a che fare con lo sport. Ciò dovrebbe impedire che i primi risultati di ricerca di un motore a seguito di una ricerca “campioni di golf”, oppure “comprare mazze da baseball” possa permettere la visualizzazione di articoli/pagine web che qualsiasi essere umano capirebbe trattare dell’argomento “golf” e “mazze da baseball” come ‘mezzo” e non come “fine” per utilizzare un’espressione squisitamente filosofica. E’ ovvio anche che questa è solo una semplificazione ‘brutale’ di come funzioni il latent semantic indexing e di come esso possa essere applicato ai motori di ricerca, ma è altrettanto evidente che la situazione attuale non è assolutamente soddisfacente per un mondo (come quello della web search) che da anni sta utilizzando le medesime tecniche utilizzate agli albori della wideness del web. Purtroppo noi ci troviamo ora in una situazione in cui qualsiasi cambiamento verso una deminsione semantica della ricerca in internet può essere male ‘accolto’ dagli stessi web surfers. Ormai, dopo anni di utilizzo, i ‘web searchers’ sono abituati a cercare le informazioni in internet con una ‘forma mentis’ lessicale piuttosto che semantica; in sostanza, quando si cerca su un motore di ricerca si attiva una ‘modalità interrogativa’ radicalmente diversa da quella che utilizziamo durante la nostra vita normale, o quando chiediamo informazioni al telefono o quando cerchiamo un numero di telefono sulla guida telefonica o sulle pagine gialle. Quando cerchiamo con delle keyphrase abbastanza lunghe, siamo convinti di trovare risultati nelle cui pagine siano contenuti i singoli termini della frase e presupponiamo che i primi documenti siano quelli in cui questi termini siano i più vicini l’uno all’altro e che siano posti nella medesima successione: Quando cerchiamo “vincitore del torneo del maggior numero di tornei di Wimbledon” ci aspettiamo di trovare dei documenti (quindi pagine web) che contengano quella frase o ‘parte’ di quella frase o quella frase ‘leggermente’ modificata. Purtroppo, non tutte le pagine web che trattano di Pete Sampras sottolineano questo fatto o magari non contengono una frase simile; con un motore di ricerca squisitamente lessicale, è ovvio che il searcher non avrà mai la possibilità di trovare immediatamente quei documenti che invece trattano approfonditamente di Pete Sampras; mesi fa notai una cosa che mi lasciò molto stupito. Nella home page del sito ufficiale del più grande campione di golf vivente (Tiger Woods) non appariva una sola volta il termine ‘golf’; una cosa solo apparentemente strana perché in effetti si presuppone che chi legga il sito ufficiale di Tiger Woods sia senza dubbio a conoscenza che lo sport di Tiger Woods è il golf. Oggi le cose stanno diversamente la parola golf appare, ma se cerchiamo su Google con il termine “Golf Champions” il sito ufficiale di Tiger Woods non appare nemmeno nei primi 100 risultati; e perché? Semplicemente perché questo sito non contiene la successione di termini “golf champions”; una cosa assurda da un ‘semantic point of view” mentre assolutamente corretta da un “lexical point of view”.

Google et alii stanno cambiando il nostro modo di scrivere?

Una caratteristica che dovrebbe essere fondamentale per qualsiasi strumento di ricerca e perciò per qualsiasi motore di ricerca è la sua capacità ‘eurisitca’. In parole semplici: un motore di ricerca non deve servire ‘solo’ per trovare qualcosa che si è ‘perso’ (di cui non si trova un sito o più siti di nostro interesse), ma dovrebbe servire anche per sapere e conoscere cose che prima non erano affatto conosciute. Se ricordo di avere visitato un sito che conteneva questa frase “to be or not to be is a stupid phrase” e non ricordo di che sito si tratti, probabilmente utilizzerò uno dei più famosi motori di ricerca inserendo nella relativa form proprio questa frase. Molto probabilmente, se la pagina in oggetto è stata indicizzata dal motore di ricerca, avrò la possibilità di ‘recuperarla’; lo stesso dicasi della dichiarazione di un Presidente o delle ultime parole di un grande scrittore. Ma questa è solo una piccola parte – e sicuramente la meno interessante – di un motore di ricerca; io holavorato tanti anni in una biblioteca; molti arrivavano cercando un libro ben preciso, forniti di titolo e autor e, se bravi, anche della casa editrice e dell’anno di pubblicazione; in quei casi, la ricerca era molto facile; il libro o c’era o non c’era; e se c’era o non era in prestito o lo era. End of the story. Spesso però si presentavano persone che chiedevano dei libri che trattassero di determinati argomenti senza sapere chi fosse l’autore, quale fosse il titolo o addirittura se esistesse un libro del genere. A quel punto era il bibliotecario che, affidandosi alla famosa e internazionalemte utilizzata CDD (Classificazione Decimale Dewey), cercava di trovare qualcosa che rispondesse alle esigenze del ‘cliente’. In seguito mi venne affidato il compito, per una grande società di ricerche di mercato, di organizzare la biblioteca aziendale (composta di decine di migliaia di volumi) attraverso un ‘nuovo’ sistema; non la CDD, ma un sistema di categorizzazione e di archiviazione che sfruttava i principi del “Thesaurus”; dico ‘nuova’ perché in Italia, per lo meno quando rioccupai della cosa una decina di anni fa, non esistevano Thesauri disponibili, mentre negli Stati Uniti e generalmente nei paesi anglofoni questo sistema di catalogazione era molto utilizzata; la catalogazione a thesaurus è molto semplice; il ‘bibliotecario’ analizza i volumi ad uno ad uno a gli attribuisce un numero (di solito sino a 20) di keyword (esattamente quelle che utilizziamo normalmente nei motori di ricerca). Per esempio, se ci trovassimo per le mani un manuale per imparare a suonare la batteria, potremmo inserire keyword come: “Manuali”, “Batteria”, “Strumenti a percussione”, “Musica” etc; colui che volesse poi cercare dei libri – in questa biblioteca’ che trattano di questi argomenti potrebbe trovarli molto facilmente con il semplice utilizzo di queste parole-chiave. Ora, il sistema del Thesaurus potrebbe essere efficacemente applicato ai motori di ricerca; l’unico motivo per cui sarebbe molto stupido farlo è che comporterebbe un lavoro editoriale umano (si tratta infatti di pagine web e non solo di siti web) di decine di anni e di decine di migliaia di persone, difficilmente organizzabile, pagabile e comunque impossibilitate a ‘stare’ ai tempi dell’evoluzione del web e quindi della crescita del numero dei documenti che sarebbero indicizzati dai motori di ricerca (a prescindere da tutti i documenti che sfuggono per un motivo o per l’altro a questa indicizzazione). Il LSI non è altro che una’automatizzazione’ di questo sistema umano che si dimostra molto efficace per gruppi di pochi documenti (centinaia o migliaia) ma che rischia di franare sotto la mole di decine di miliardi di documenti.
Spero di avere ampiamente dimostrato che i motori di ricerca semantici sarebbero ben superiori (per certe funzionalità, soprattutto quelle squisitamente eurisitiche) a quelli lessicali (che dovrebbero comunque essere mantenuti in vita per svolgere sempre al meglio al loro funzione ‘semplificatrice’), ma vorrei sottolineare un fatto che a mio parere è molto grave, in merito alla situazione attuale. Infatti che cosa accade oggi a chi ‘scrive’ delle pagine web. Chiunque è consapevole che quello che scrive ha un valore se viene letto e che potrà essere letto da più persone quanto più sarà visibile nei motori di ricerca; quindi, di fatto, se chi scrive per il web è consapevole di tutto ciò che abbiamo detto sopra (e i cosiddetti ‘professionisti’ ne sono assolutamente consapevoli) è evidente che essi non potranno esimersi dal pensare a quali saranno le frasi o le parole con cui essi vorranno essere ‘trovati’ in fase di web searching. Che cosa significa? Che la lessicalità degli attuali search engine influenza tutti i testi che vengono scritti ‘per il web’; non solo i nomi a domini odi un sito sono celti in ragione dell’indiczzazione dei motori di ricerca; non solo i titoli delle pagine sono scelti in ragione degli algoritmi dei motori di ricerca; gli stessi testi, i contenuti delle pagine sono pensati per contenere delle frasi-chiave che si suppone siano e saranno utilizzate sai searcher e per le quali si desidera apparire nella migliore posizione possibile (in breve: primi della lista). Ciò significa che gli editori della pagina biografica ufficiale di Tiger Woods sarebbero costretti a inserire (e a farlo più volte) la keyphrase “Campioni di golf” per riuscire a essere visualizzati nei primi posti a seguito di queste ricerche e non essere ‘superati’ da siti sicuramente meno a tema come quello dell’associazioni delle golfiste del Maryland (che invece contengono questo termine); una delle dimensioni aberranti della situazione attuale (che i motori di ricerca sono ancora esclusivamente lessicali) è che vengono addirittura distribuiti e pubblicizzati dei ‘tool’ (spesso disponibili gratuitamente online) che permettono di capire quale debba essere la “keyword density” di una keyword per fare si che essa sia considerata rilevante per il motore di ricerca; in sostanza, i motori di ricerca non solo non ‘capiscono’ di che cosa tratta il documento indicizzato, essi non sono nemmeno in grado di capire se il termine presente è importante all’interno del documento e quindi viene tutto ridotto a una mera questione quantitativa; pensate a un giornalista che scriva un pezzo sull’Iraq e che dovesse pensare a quante volte scrivere il nome Saddam Hussein per fare sì che il suo articolo venga letto…E’ evidente che si tratta di una situazione che non può assolutamente giovare alla qualità dei contenuti dei motori di ricerca; i motori di ricerca attuali (Google in primis) non solo stanno modificando il modo di ‘pensare’ dell’uomo in fase di ricerca (facendo così della intelligenza ‘naturale’ dell’uomo qualcosa di ‘artificiale’ e – in questo caso – ‘superficiale’), essi stanno anche riuscendo a modificare il modo stesso di scrivere, di produrre documenti e informazioni. Entrambe le cose, nate solo da una situazione di deficienza e di inadeguatezza dei motori di ricerca attuali – nono solo è negativa in sé ma è anche un ostacolo al passaggio stesso da una situazione lessicale a una semantica

Voglio terminare questa analisi della situazione attuale con un piccolo riferimento al Pagerank, termine utilizzato da Google ma di fatto sistema utilizzato (con altri nomi o senza alcun nome) da tutti i principali motori di ricerca attuali. Il pagerank è il ‘peso’ che una determinata pagina ha. In Google viene addirittura denominato (basta un mouseover sulla barretta verde) ‘indici di attinenza’; posto che non ha senso parlare di ‘attinenza’ di un documento se non si ha idea della cosa (concetto, situazione tc) cui questa pagina debba attenere, è evidente che ultimamente il ‘peso’ (determinato come ben si sa dalla quantità e qualità delle pagine web che linkano una specifica pagina web) conta molto più dell’attinenza,m ovverosia che la quantità conta più della qualità. Mi spiego meglio: posto che ha un senso considerare una pagina web ‘migliore’ di un’altra dal momento che è ‘citata’ (i.e. linkata) da più siti e ricordando comunque che questa ‘tattica’ ha dei grandi difetti, attualmente sia Google sia gli altri big player mischiano l’attinenza con l’importanza della pagina, producendo come risultato la visualizzazione nelle prime posizione (quelle maggiormente visualizzate dagli utenti del motore di ricerca stesso) di documenti che pur essendo meno attinenti per gli stessi algoritmi utilizzati dal motore (per criteri per quanto errati come quello della’keyword density’) di fatto sono ‘preferiti’ ad altri documenti solo perché più ‘potenti’, ovverosia pù linkati, linkati da più tempo, esistenti da più tempo (ecco perché Google è fondamentalmente conservatore e quindi radicalmente non innovatore). Il Google Bombing (fare apparire il sito di Bush in prima posizione con il termine ‘fallimento’) rappresenta non tanto il presunto fallimento di Bush quanto piuttosto il fallimento dei motori di ricerca e del più grande motore di ricerca che, avendo cercato e in parte modificato il modo ‘naturale’ di cercare e il modo ‘umano e culturale’ di scrivere e di organizzare un sito) si appella a una presunta ‘democraticità’ del Web per dire: ok, e allora quale dovrebbe essere il primo sito ad apparire?. Domanda legittima solo se pensiamo che tutti gli algoritmi e sistemi utilizzati sino ad ora saranno visti fra qualche lustro all’interno di una fase decisamente ‘primitiva’ che negli ultimi anni sta perdendo tutto il suo fascino pionieristico per lasciare spazio solo a una grande frustrazione nel quotidiano utilizzo dei motori di ricerca. [fonte Webmarketingstrategico.com]

05 novembre 2005

Music On Demand: AOL acquista Musicnow.com

AOL Musicnow.comAmanti della musica online accorrete. Dopo Musicnet (che comprende un archivio di circa 600.000 canzoni), il gruppo Time Warner fa un ulteriore passo in avanti nel modo della music on demand.

Si e' infatti appena conclusa l'acquisizione di Musicnow.com da parte del motore di ricerca AOL. I termini economici dell'accordo non sono stati ancora rivelati dalle parti.

Quello che è certo è che ora i patiti della online music potranno scaricare oltre un milione di canzoni tramite il portale aol.musicnow.com ad un costo piuttosto contenuto: si parte infatti da una cifra di 0.99$ a canzone, ma sono disponibili anche piani di abbonamento mensile che partono da 9.95$.

Buon download a tutti!

03 novembre 2005

Yahoo e la search box aggiuntiva in testa ai risultati di ricerca

Via Inlogicalbearer la curiosa notizia secondo cui Yahoo!, il noto motore di ricerca californiano ha aggiunto una search box ulteriore in testa ai risultati organici e questo solo quando si ricerca Google, e questo accade solo in alcuni dei suoi domini nazionali che nello specifico sono: Yahoo! Italia, Yahoo! France, Yahoo Australia e pochi altri. Sotto avete un'immagine d'esempio.


yahoo search

02 novembre 2005

Contenuti a pagamento

La lunga fase di trasformazione di Internet si concretizza in una domanda chiave per il futuro della Rete: gli utenti sono disposti a pagare per i contenuti?
Dalla prima Internet volontaria e gratuita alla crescita sostenuta da motivazioni finanziarie e nebulosi progetti, dallo scoppio della bolla alla maturità dei servizi a pagamento. Per capire se veramente la Rete è entrata a pieno titolo in una nuova fase di sviluppo e crescita, l’interrogativo principale riguarda la sua capacità di veicolare, insieme ai servizi e ai contenuti, anche gli investimenti e i ritorni. Capire se gli utenti sono disposti a pagare per quello che trovano in Rete è lo snodo fondamentale per il futuro di Internet.

Le famiglie e i contenuti

Il rapporto 2005 dell’Osservatorio AIE, Associazione Italiana Editori, è stato condotto dalla società di ricerca ISPO ed ha un significativo titolo: “Le famiglie italiane e i contenuti digitali: modalità di accesso e di consumo”. Il quadro che emerge da questa ricerca indica chiaramente che la mentalità degli utenti Web è cambiata: l’idea di accedere a contenuti a pagamento è ormai radicata, il consumo di contenuti digitali non va a scapito degli strumenti tradizionali, come i libri, l’argomento di maggior richiamo per i navigatori restano le notizie, d’approfondimento o sotto forma di corsi, news veloci o articoli specialistici.

Crescita Web

La premessa al nucleo centrale della ricerca, condotta su un campione di 4.336 persone rappresentative della popolazione italiana, è la crescita costante dell’uso di Internet in Italia. La penetrazione della Rete nella popolazione si attesta al 46%, circa 23 milioni. Lo scorso anno si attestava al 43%, con una continua crescita anche in questi ultimi anni. Tra chi possiede un Pc, l’83% è un navigatore. Il primo dato significativo quindi riguarda non tanto le ulteriori possibilità di espansione di Internet in sé, ma della crescita della cultura informatica nel suo insieme. Circa il 45% degli italiani ancora non utilizza un personal computer. La base su cui lavorare per il futuro è rappresentata da questa metà degli italiani, ancora fuori dalla società dell’informazione. Tra i navigatori, la maggioranza assoluta è catalogata come “forti utilizzatori”, ossia persone che hanno notevole dimestichezza con le tecnologie e con Internet. La prima nota importante è che tra questo gruppo è molto forte anche la lettura di libri e quotidiani (il 61% dei forti utilizzatori legge libri con regolarità, il 57% legge quotidiani). Il web quindi non sostituisce, ma si affianca ai media e agli strumenti tradizionali per la ricerca di notizie e approfondimenti.

Pagare, perché no?

L’elemento di maggior interesse della ricerca, tuttavia, riguarda la propensione al pagamento dei contenuti. Il campione intervistato, infatti, non ha sollevato dubbi rispetto all’opportunità di pagare i contenuti da fruire in Rete. Ma per quale tipo di contenuti sarebbero disposti a pagare gli utenti? Prima di tutto per lo studio e la professione: i corsi di formazione (il 67% del campione pagherebbe) e materiali a vario titolo utili per la propria attività (45% del campione) riscuotono grande comprensione. Sullo stesso livello sono da porre le informazioni specialistiche (55%) e la ricezione di attività di consulenza (48%) evidenti compendi alle due categorie di cui sopra. La fruizione di musica a pagamento è normale per il 41% del campione. Anche solo la lettura di giornali e riviste online, però, riscuote un significativo 29%, che equivale a un pubblico potenziale di oltre 3 milioni e mezzo di italiani. Rispetto alla sicurezza delle transazioni, i dubbi sono pochi: pur con notevoli sfumature, la fiducia nella sicurezza del mezzo è appurata. Per quanto riguarda il metodo di pagamento, invece, l’abbonamento sembra il preferito.

Modalità di fruizione

L’ultimo elemento degno di nota riguarda invece la modalità d’approccio alle informazioni online. La parte più numerosa (il 37%) può essere catalogato come “mordi e fuggi”. Sono curiosi che utilizzano Internet senza uno scopo preciso, cercando di tutto un po’. Senza particolari esigenze d’archiviazione delle informazioni raccolte, si muovono un po’ per curiosità e un po’ per esigenze professionali o di studio. C’è quindi un corposo gruppo (24%) rappresentativo di persone non molto giovani (comunque sotto i 50 anni) che usano Internet a pillole, senza fidarsi eccessivamente delle nuove tecnologie. Per questo stesso motivo, sono i meno propensi a compiere transazioni online. Il gruppo più interessante è rappresentato invece dal 22% del campione: un blocco di persone che usa Internet per quello che serve e che mantiene il materiale fino a quando serve. Sono soprattutto i più giovani, tra i 14 e i 17 anni, hanno molta confidenza con le tecnologie, sono disposti a pagare. Usano il Web soprattutto per le proprie attività di studio o professionali. Infine, l’ultimo gruppo (17%) è composto dagli ultimi arrivati, per forza di cose molto prudenti e con poca propensione agli scatti in avanti. Sono disposti a pagare, ma soltanto per arrivare a corsi di formazione o informazioni specialistiche. [fonte Shinynews]

RSS fa bene all'ecommerce

Feed RSSUno studio di Forrester Research dimostra come gli utilizzatori di Feed RSS siano utenti evoluti, attenti anche all'ecommerce e predisposti a spendere online. L'uso di RSS è in forte crescita negli ultimi mesi. Anche in Italia, da una prima improvvisa moda, si è passati a una diffusione sensibile.

Il mondo dei blog ha funzionato da volano e da amplificatore per la loro diffusione, e oggi gli RSS sono utilizzati da moltisssimi blogger. A seguire, sono stati i siti istituzionali dell'informazione a dotarsi di canali RSS. Ma se ha preso piede con consistenza la distribuzione di contenuti in questo formato, è ancora poco chiaro quanti siano gli utenti raggiunti dai Feed RSS. Quanti navigatori si sono dotati di news aggregator e utilizzano questa forma di fruizione dei contenuti? A cercare di rispondere, almeno per l'America, è stata Forrester Research con un recente studio che offre molte e importanti indicazioni.

Chi sono gli utenti americani RSS
A dire di usare RSS è soltanto il 2% degli utenti Internet americani adulti. Se però si abbassa l'età fino alla fascia compresa tra i 12 e i 22 anni, allora la percentuale si alza fino al 5%. Sia in un caso che nell'altro, la stragrande maggioranza (i due terzi circa) sono maschi. Come sempre, i giovani (maschi) sembrano più veloci e ricettivi rispetto alle nuove tecnologie e ai nuovi strumenti Internet. In generale, comunque, sono numeri molto bassi, anche se stiamo parlando soltanto degli utenti consapevoli. Infatti, nelle percentuali non sono considerati quegli utenti che li usano senza saperlo, per esempio nel portale My Yahoo! che li offre automaticamente.

Il profilo degli utenti RSS
Ciò che diventa interessante, nella ricerca di Forrester, è il profilo degli utilizzatori di RSS. Infatti, gli utenti RSS passano online circa il doppio del tempo dei non utenti RSS, utilizzano molto di più sistemi broadband e wireless, e si considerano ottimisti rispetto all'hi tech. Fin qui, c'è poco strano: è normale che i primi a usare uno strumento nuovo siano quelli più abituati a navigare molto e con i mezzi più evoluti. A stupire è la definizione che Forrester arriva a dare degli utenti RSS: drogati d'informazione e clienti online.

Notizie e acquisti
Il 43% degli utenti RSS fa visita normalmente ai più importanti siti d'informazione nazionale (contro solo il 14% dei non utenti RSS). Inoltre, l'uso di RSS sembra ancora legato, anche in America, al mondo dei blog. Il 25% degli utenti RSS ha un blog e il 27% visita e legge quotidianamente dei blog. Il 21% degli utenti RSS utilizza i siti di comparazione dei prezzi, contro solo il 4% dei non utenti RSS. Il 40% degli utenti RSS dice di cercare prodotti da comprare sul Web, contro il 18% dei non utenti RSS. E, infine, nell'ultimo trimestre, la spesa media online degli utenti RSS è stata di 465 dollari contro i 333 dollari dei non utenti RSS.

Il senso dello studio
Tutto quello che appare da questo studio di Forrester è abbastanza evidente. Le aziende che operano online a livello professionale nell'informazione o nell'e-commerce devono prestare molta attenzione a RSS. Chi usa RSS, infatti, rappresenta un potenziale cliente molto di più di chi non lo usa. Non c'è niente di misterioso in questa constatazione: probabilmente, come già detto, sono gli utenti più evoluti e più abituati ai meccanismi di Internet i primi a sfruttare nuovi e innovativi strumenti. In questo momento, l'uso di RSS sembra essere un tratto distintivo proprio di quegli utenti, che sono poi i più disposti a spendere e informarsi online. E probabilmente - anche se la ricerca non ha preso in considerazione questo parametro - l'uso di RSS in fase di ricezione è abbinabile al suo uso in fase di diffusione di notizie: chi ha un news aggregator in cui riceve i Feed, a sua volta nel blog probabilmente distribuisce Feed.

E in Italia?
Impossibile dire con certezza se i dati riscontrati per gli utenti americani siano validi anche in Italia. Le differenze nell'uso della Rete sono troppe, a partire anche solo dalla propensione alla spesa online. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, il formato RSS sembra essere legato al mondo dei blog e dell'informazione professionale, come in Italia. È quindi probabile che anche in Italia, l'avanguardia degli utenti RSS sia costituita da quegli utenti evoluti più abituati a stare e vivere in Rete. Chiunque operi professionalmente su Internet dovrebbe tenerne conto e monitorare con attenzione il fenomeno e i suoi sviluppi. [fonte Shinynews]