La "volatilità" dei cookie. Ecco perché il PPS non funziona
Vediamo perché il Pay Per Sale (PPS) non è accettabile come metodo di pagamento delle campagne pubblicitarie su Web...
Da quando Internet è diventato popolare (a metà degli anni ’90) si parla dei cookie. Molti ricorderanno il panico scatenato dalla loro ‘scoperta’ tanti anni fa… Girava voce che i cookie fossero dei virus o che comunque fossero delle ‘porte’ lasciate ‘aperte’ nei nostri computer per colpa di siti ‘cattivi’. Come oggi quasi tutti sanno bene, i cookie non sono altro che file, lasciati su una parte del nostro computer, che ci permettono di navigare più facilmente i siti che abbiamo visitato.
I cookie servono ad esempio per memorizzare il nostro nome utente quando accediamo a un sito che prevede accesso con login. Come è chiaro, si tratta di funzioni particolarmente utili e niente affatto dannose; ma i cookie vengono sempre più utilizzati per ‘tracciare’ le vendite online. Come è noto, uno degli ultimi trend è quello di ‘dividere i rischi’ tra editore e merchant (colui che deve vendere un prodotto/servizio); la pubblicità viene sempre più venduta in modalità revenue sharing; il cliente non paga per le impression, non paga per i click, ma paga (l’editore, ovverosia chi gli fornisce il traffico) - in una determinata % - solo quando viene generata effettivamente una vendita (o, altrettanto tipicamente, un’iscrizione o una qualche ‘action’).
PPS: Pay (just) per sale
Come abbiamo più volte sottolineato, questa strategia pubblicitaria, introdotta sapientemente dai merchant e ingenuamente accettata dagli editori, è poco equilibrata e per vari motivi. In primis, per un motivo intrinseco: la pubblicità, da sempre, è considerabile un investimento e – come tutti gli investimenti – può essere proficuo o fallimentare; in breve, può andare bene o male. L’imprenditore stesso si definisce come un soggetto che ‘rischia’ per ottenere un guadagno superiore rispetto a chi invece lavora non rischiando (tipicamente, il lavoratore dipendente). Con l’ ‘acquisto’ di pubblicità in revenue sharing, la variabile del rischio viene completamente eliminata; pensate se qualcuno – anche una ditta che vende bene e ha già dei prodotti ‘storici’ testati – chiedesse a un commerciale di un network televisivo di ‘acquistare’ pubblicità in revenue sharing.
Il dialogo sarebbe probabilmente questo:
Potenziale cliente: “Vorrei acquistare 1000 passaggi da 30’’ in fascia preserale”
Commerciale: “Benissimo, le mostro quali sono i prezzi di listino”
Potenziale cliente: “Però non vorrei pagare nella maniera tradizionale…”
Commerciale: “Nel senso che vuole allungare i tempi di pagamento?”
Potenziale cliente: “No, nel senso che voglio pagare non per la pubblicità che compro, ma solo in ragione dei prodotti che effettivamente riesco a vendere grazie alla pubblicità acquistata sulle vostre reti…”
Commerciale: “Arrivederci”.
Al contrario, le agenzie pubblicitarie di Internet non vedono l’ora di contendersi clienti di questo tipo; il terzo soggetto di questa relazione commerciale è rappresentato dagli editori. Che cosa accade dunque? Dal momento che Internet è ancora considerato uno strumento pubblicitario di scarsa efficienza e quindi di scarso interesse, le agenzie pubblicitarie stesse (che normalmente non si occupano solo di Internet) tendono ad accettare tranquillamente proposte di revenue sharing. Come è noto, non sono le agenzie pubblicitarie stesse a essere coinvolte nella ‘fornitura’ di traffico ai clienti; le agenzie pubblicitarie sono soltanto un tramite per mettere in collegamento clienti-merchant (chi vende servizi/prodotti) con editori (chi ha a disposizione traffico di utenti internet da veicolare).
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La distanza tra clienti ed editori
Spesso, come si vede dallo schema di cui sopra, i passaggi che portano il cliente sino all’editore sono più di uno e i soggetti coinvolti possono essere anche tre; è bene sottolineare che – anche in caso di pubblicità in revenue sharing – molti di questi soggetti impongono ai clienti dei set up fee; in sostanza, si tratta del pagamento di una quota (per lo più fissa) che non ha a che vedere con i guadagni direttamente provenienti dalle vendite e di cui il revenue sharing è l’essenza commerciale. Al contrario, agli editori non spetta nessun set up fee… Questo significa che l’unico anello ‘debole’ della catena commerciale che porta il cliente a raggiungere dei potenziali clienti internet è proprio l’editore ed è l’anello debole proprio perché è l’ultimo anello; di fatto, l’editore viene considerato the last and the least, l’ultimo e il meno importante, mentre – anche solo intuitivamente – è l’unico soggetto che è effettivamente necessario per il cliente. Accade oggi in Internet quello che accade in agricoltura in tante località del sud Italia; come in Sicilia esistono dei produttori di pomodori che sono costretti a vendere a due centesimi al chilo (un prezzo simbolico perché non venga chiamato furto) un prodotto che poi viene venduto al dettaglio magari a due euro al chilo (facendo guadagnare tutti coloro che si trovano nella filiera), così gli editori si trovano oggi costretti a offrire ai clienti un prodotto che sarà pagato solo a determinate condizioni e queste condizioni sono il successo della campagna pubblicitaria.
Questo per quanto riguarda l’essenza del meccanismo del revenue sharing.
C’è però un problema aggiuntivo che coinvolge anche una parte squisitamente tecnica: come si stabilisce che una campagna ha successo e la misura di questo successo? Attualmente, il sistema che viene maggiormente utilizzato è quello del tracking (tracciamento) attraverso i cookie.
Il meccanismo è molto semplice:
Il surfer A arriva sul sito C (del cliente-merchant) attraverso il sito B (dell’editore).
C lascia sul PC di A un cookie che contiene diverse informazioni, tra cui l’ora e la data in cui C è stato visitato da A e il passaggio attraverso B (l’editore, che in questo caso viene definito un ‘referer’).
Se entro un certo lasso temporale (tipicamente, dai 30 ai 45 giorni) A acquisterà un prodotto su C, allora a B sarà concessa una parte di questo acquisto (che può variare dall’1% al 15%, tipicamente).
Sembrerebbe un sistema molto efficiente; di fatto non lo è e per due motivi.
In primis, questo sistema presuppone che l’atto dell’acquisto su C sia effettuato da A con il medesimo computer con cui ha visitato C per la prima volta ‘passando da’ B. E’ invece tipico il caso in cui le attività di navigazione vengono eseguite sul posto di lavoro, mentre le attività di acquisto vengono effettuate in casa; spesso infatti il navigatore non desidera estrarre la propria carta di credito in ufficio per mettersi a compilare i campi necessari per l’acquisto (soprattutto per motivi di riservatezza). Inoltre, chi acquista online, in più del 75% dei casi, è convivente o sposato e – come è noto – le operazioni di acquisto sempre meno vengono effettuate senza coinvolgere il proprio partner (anche per prodotti non particolarmente costosi). Il surfer attende dunque di andare a casa per discutere con il proprio partner sull’acquisto da effettuare e l’acquisto viene effettuato da casa, e non sul personal computer che ha memorizzato il cookie.
Questo è il primo difetto ‘strutturale’ di questo sistema di tracking; ma ne esiste un altro che è sempre più importante e che deve essere qui considerato, anche in virtù di dati recentemente pubblicati.
Poniamo infatti che un surfer disponga di un solo personal computer (o solo a casa o solo in ufficio); in questo caso sembrerebbe eliminato il problema di cui sopra; ma esiste un altro problema, ancora più grave, che possiamo introdurre con una semplice domanda: “Quanto rimangono mediamente i cookie sui computer dei navigatori?”.Una domanda che le agenzie e i centri media non si pongono, ma che debbono invece porsi gli editori.
I cookie sono “inaffidabili” secondo la JupiterResearch
La JupiterResearch (società leader negli studi su Internet) ha recentissimamente pubblicato dei dati impressionanti:
Nearly 40 percent of Internet users delete cookies from their primary computers on at least a monthly basis.
Il 40% dei navigatori cancella i cookie dal proprio computer ogni mese.
La ricerca è stata condotta su un panel di 2.337 rispondenti; il 17% degli utenti elimina i cookie con un ritmo settimanale; il 12 mensilmente e il 10% quotidianamente.
Eric Petersen, l’analista senior di questo rapporto, ha dichiarato: “Il punto principale di questa ricerca è che ha mostrato come l’utilizzo dei cookie per tracciare, controllare e analizzare il comportamento dei surfer è totalmente inaffidabile”.
Ma quali sono i motivi per cui i surfer cancellano i cookie dal proprio personal computer? Nonostante i cookie non siano affatto dannosi e non comportino di fatto problemi effettivi di privacy, è evidente da questa analisi che la percezione della maggior parte delle persone non coincide con la realtà.
Sempre Erik Petersen, ha dichiarato: “Per qualche motivo, i navigatori hanno identificato i cookie come spyware; gli utenti non capiscono a che cosa servano i cookie”.
Di fatto, questa affermazione è ingenua: se è infatti vero che un cookie non presuppone uno spyware, è altrettanto vero che uno spyware presuppone un cookie e quindi - in dubbio - gli utenti che vogliono cancellare i cookie di spyware cancellano anche i cookie ‘buoni’.
Questi dati debbono però essere interpretati più attentamente; se infatti è vero che possiamo dire che il 50% dei surfer cancella i cookie mensilmente, è anche immaginabile che coloro che cancellano più frequentemente i cookie sono coloro che navigano più frequentemente; è infatti impossibile che un surfer che naviga una volta a settimana possa cancellare i cookie quotidianamente; ed è però anche evidente che sono proprio i navigatori più assidui coloro che fanno acquisti online. Quindi, possiamo dire che è molto probabile che coloro che effettuano acquisti online siano anche color che effettuano più frequentemente la cancellazione dei cookie.
Che conclusioni possiamo trarre da questi dati di fatto? Senza dubbio possiamo affermare che il PPA non è un efficiente sistema commerciale di compravendita di pubblicità online. Non solo, il sistema è scorretto da un punto di vista metodologico, ci possono essere dei problemi relativi all’utilizzo di diversi personal computer per il medesimo sito; abbiamo infatti visto bene, nell’ultima parte del nostro articolo, che i cookie stessi sono un sistema di tracking che è stato definito da un’analisi accurata della JupiterResearch “inaffidabile” (unreialable).
Una possibile soluzione
A nostro parere questa situazione di impasse può essere risolta in due maniere: o si comincia a ‘vivere’ la pubblicità in Internet in maniera ‘tradizionale’, oppure si fa in modo che i sistemi di PPA (Pay per Action) e PPS (Pay per Sale) offrano veramente delle garanzie di efficienza. Una soluzione potrebbe essere quella di rendere obbligatori dei “coupon elettronici”; dimenticandosi completamente dei cookie (che non sono – abbiamo visto – affidabili), si dovrebbe fare in modo che quando A raggiunge C attraverso B abbia dei vantaggi (tipicamente economici) che non avrebbe invece se avesse raggiunto C ‘direttamente’.
In questo modo, è evidente che A avrebbe tutto l’interesse per riconoscere a B il ‘merito’ di avergli fatto conoscere il sito in oggetto.Questa è di fatto l’unica soluzione possibile; ma è anche vero che anche questa soluzione è di fatto insoddisfacente e per un motivo molto semplice.Poniamo che tutti i sistemi di PPA funzionino – come abbiamo auspicato – con il sistema dei coupon elettronici; questo non risolverebbe un altro problema.Poniamo infatti che A arrivi a C attraverso B. E poniamo che egli lo ‘dichiari’ esplicitamente (dal momento che ne trae un vantaggio economico), che ha raggiunto C grazie a B. Il sistema sembra perfetto ma non è affatto così. A ha raggiunto C attraverso B, ma è molto probabile che A abbia conosciuto C anche precedentemente attraverso D, E, F, G, H, I etc.
Tutti questi editori hanno fatto conoscere C ad A; l’unico loro ‘difetto’ è stato quello di non essere stati gli ‘ultimi’ ad averglielo fatto conoscere, ma è evidente che questo non ha alcun senso. Chi ci dice che A avrebbe acquistato da C se non avesse visto precedentemente lo stesso C attraverso D, E, F etc? Questi siti hanno svolto una funzione inutile? E’ evidente che non è così, perché altrimenti i pubblicitari farebbero sì che il medesimo soggetto non riceva il medesimo messaggio pubblicitario decine e centinaia di volte perché è ben noto che non è sufficiente un solo ‘input’ per scatenare non solo l’acquisto del cliente ma anche solo la sua attenzione e la sua curiosità.
E’ allora evidente che la vera soluzione a questa impasse creata dai sistemi di revenue sharing tipici del PPS è il loro superamento. In questi ultimi tre anni la pubblicità in televisione è andata eccellentemente; sia i network televisivi pubblici sia quelli privati hanno venduto molto bene la pubblicità sulle proprie reti; al contrario, la pubblicità in Internet rappresenta ancora il fanalino di coda di tutta la pubblicità e si colloca allo stesso livello della pubblicità che viene passata nei cinema prima dei film.
L’auspicio è che tutti gli operatori della pubblicità in Internet (dai centri media agli operatori e – obtorto collo – anche i clienti) si informino veramente sulle potenzialità e le possibilità (anche di fare brand) della pubblicità online che non ha nulla da invidiare a tutti gli altri strumenti pubblicitari e – proprio per questo – siano disposti a giudicare – ed acquistare – l’online advertising con gli stessi principi e gli stessi parametri con cui viene acquistata qualsiasi altra pubblicità, dai volantini alla tv nazionale.
di Federico Riva